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Il lavoro del futuro tra ansia e paure

di Michele Schiavone – 

Il lavoro al tempo della pandemia è diventato l’elemento determinante per la tenuta del sistema sociale. Spartiacque tra un passato caratterizzato da profonde differenze sociali, acuite dalle trasformazioni dei tempi e delle modalità delle prestazioni d’opera. Agli albori di una nuova era, il futuro del nuovo mondo del lavoro è tutto da ridefinire e modellare facendo leva sul tronco dei diritti sui quali si sono rette le società pre e postindustriali fino all’avvento della globalizzazione. Il lavoro resta lo strumento indispensabile attorno al quale costruire la società del futuro.

La transizione verso nuovi modelli organizzativi del lavoro è la cifra intorno alla quale in futuro si dovranno costruire la domanda e l’offerta del mercato del lavoro. I tempi, i luoghi, le forme di lavoro si stanno ridefinendo. Il lavoro a chiamata, il lavoro occasionale, il lavoro in affitto o interinale, il lavoro agile, il cosiddetto smart working o lavoro a distanza, il lavoro sostituito dall’intelligenza artificiale rappresentano la frontiera della nuova società del lavoro. Parafrasando concetti in uso in altri ambiti, il lavoro del futuro dovrà essere distinto tra lavoro buono e lavoro parassitario o inutile.

Ovunque nel mondo la pandemia sta mettendo a dura prova il mondo e il mercato del lavoro; essa ha prodotto profonde fratture nel mondo dell’occupazione: chiusure di aziende, licenziamenti e disoccupazione. Milioni di famiglie si sono impoverite e fanno ricorso agli ammortizzatori sociali, che continuano a garantire assistenza e protezione fino a quando le politiche del lavoro saranno sostenute dagli interventi dello stato. Nei paesi dove questi strumenti di accompagnamento non prevedono protezione assicurativa molte famiglie sono sprofondate nella miseria. Il termine povertà si è diffuso anche nelle società avanzate ed è rimasto radicato in quei luoghi dove non si riesce più neanche a sognare un futuro diverso. Chi invece è rimasto nella schiera produttiva e ha la fortuna di lavorare, vive con la paura di finire in lavoro ridotto o di perderlo.

Da una parte la paura per sopravvivere all’epidemia, le premure e le attenzioni per evitare il contagio che compromette la salute e la vita delle persone i cui esiti hanno forti ripercussioni sulla demografia, dall’altra la paura per il lavoro che scarseggia a causa delle chiusure delle grandi e medie aziende, dei blocchi forzati degli esercizi ritenuti non essenziali sostenuti parzialmente dagli interventi legislativi dello stato e dai ristori.

Quando l’emergenza sanitaria sarà superata riusciranno i programmi economici di ripresa e resilienza promossi dalle istituzioni nazionali a far ripartire le economie, a far ritornare la fiducia nell’occupazione e a sanare il danno prodotto?  Sicuramente ci vorranno molti anni per recuperare, ricostruire e rimettere in equilibrio un sistema che possa riorganizzare il mondo del lavoro, che ci auguriamo più giusto di quello che abbiamo conosciuto prima dell’ecatombe pandemica e, soprattutto, che vengano messe al bando forme di abusi e di sfruttamento.

Le aspettative di un ritorno al futuro occupazionale sono riposte negli interventi straordinari degli stati. Il recovery fund, i piani nazionali di ripresa e resilienza metteranno in circolazione le risorse finanziare utili per far ripartire le economie, serviranno a rilanciare l’occupazione e ci auguriamo possano contribuire finalmente a ridurre le diseguaglianze sociali. Si è in tanti ansiosi di voltar pagina, di ritornare alla quotidianità scandita dall’occupazione, dal lavoro, dall’impiego che concorrono a definire il senso e il fine di una comunità. Pensare al lavoro come strumento di integrazione sociale, al ruolo dei giovani, delle donne è la sfida di chi è chiamato a costruire la sostenibilità di un sistema che dovrà garantire progresso e uguaglianza.