di Alessio Tacconi –
Siamo alle nozze di platino tra il popolo italiano e la sua Repubblica. Quest’anno, infatti, in occasione del 2 giugno, festeggiamo il 75° anniversario della nascita della Repubblica italiana, scaturita dal risultato del referendum istituzionale tenutosi nel 1946. Credo sia un avvenimento importante, sicuramente da festeggiare con gioia ed entusiasmo, in quanto (è sempre bene ricordarlo) la nascita della Repubblica ci ha permesso di godere di 75 anni di pace. Non è stato facile, né scontato, arrivare a quel giorno, poiché si è prima dovuti passare attraverso un ventennio di dittatura e una guerra mondiale.
Non meno travagliata è stata la storia dei due più importanti simboli della repubblica: la bandiera tricolore e l’inno nazionale. Per la bandiera, la scelta e l’utilizzo è stato molto naturale, dopo che venne usata per la prima volta nei suoi colori attuali nel lontano 1797, a Reggio Emilia. Lo slancio riformatore e rivoluzionario era arrivato anche nella penisola a seguito alla Rivoluzione francese, con la differenza che il vessillo ufficiale presentava il colore verde al posto del blu. Da quel momento, i colori verde, bianco e rosso hanno contraddistinto le varie fasi della storia italiana, fino alla nascita della repubblica, della quale il tricolore è diventato vessillo ufficiale, come stabilito dall’articolo 12 della nostra Costituzione.
Più difficile e pieno di ostacoli è stato, invece, il percorso fatto dal Canto degli Italiani, conosciuto anche come Inno di Mameli o Fratelli d’Italia. Pochi sanno, infatti, che solamente nella scorsa legislatura, precisamente nel dicembre 2017, il testo di Goffredo Mameli è stato riconosciuto come inno nazionale della Repubblica. Ho avuto la fortuna di essere presente, come membro della Camera dei Deputati, nel giorno in cui il voto delle commissioni parlamentari ufficializzava tale decisione e ricordo con piacere il sincero applauso di tutto il Parlamento. Fino a quel giorno, però, molte generazioni di italiani l’avevano cantato, con la mano al cuore, e riconosciuto come proprio canto nazionale, senza che ne avesse l’ufficialità.
Vorrei, ora, allargare lo sguardo oltre i confini nazionali, poiché in questi anni, mentre in Italia attendevamo pazientemente di avere un inno nazionale ufficialmente riconosciuto, è nata e si è imposta una nuova entità istituzionale, conosciuta da noi tutti come Unione Europea, nata con il nome di Comunità Economica Europea nel 1957. Non mi dilungo sull’importanza, almeno per chi scrive, che l’Unione Europea ha avuto per il mantenimento della pace e per lo sviluppo economico di tutti i suoi membri in questi anni. Vorrei fare solo notare, in uno sforzo informativo dettato prevalentemente dalla curiosità, quanto sia stata diversa la storia dell’adozione della bandiera ufficiale europea e del suo inno.
La bandiera con le 12 stelle dorate su campo blu, ben nota a noi tutti, è nata (come nel caso italiano) addirittura prima dell’Unione Europea stessa, in quanto adottata già nel 1955 per rappresentare l’intera Europa geografica. Qualche anno dopo, nel 1992, la nascente Unione la adottò come suo vessillo ufficiale, come indicato nel trattato di Maastricht siglato in quell’anno. L’inno europeo, invece, fu adottato già nel 1972 dal Consiglio Europeo. È conosciuto anche come Inno alla Gioia, componimento di Ludwig van Beethoven, ed ha la particolarità di non presentare un testo, ma di essere costituito solo dalla musica, linguaggio universale che esprime gli ideali di libertà, pace e solidarietà perseguiti dall’Europa.
Storie diverse, dunque, che indicano comunque lo stesso sforzo di unificazione e pacificazione, se parliamo di geografia e politica, e di identità ed unione, se parliamo di colori e musiche.
Da molti anni, il dibattito politico e sociale riflette questa nostra duplice appartenenza. Molti di noi si sentono sia italiani che europei (e ci spiace per chi invece non la pensa allo stesso modo). Sappiamo quanto sia stata importante l’Unione nel dare stabilità politica, nel definire regole di convivenza, nel favorire la mobilità (che rappresenta anche esperienza ed integrazione), nel dare un grande supporto ai suoi membri (da ultimo, per ripartire dopo la pandemia da Covid19). Sappiamo bene, altresì, che il viaggio è ancora lungo, molte cose sono imperfette e molte altre restano da fare per raggiungere l’obiettivo di una Unione totalmente compiuta in tutti i suoi aspetti. Quando bello, sarebbe, solo per fare un esempio, avere in tasca un passaporto europeo? Io sono tra quelli che metterebbero questo tra gli obiettivi prioritari di ogni programma politico di una forza progressista di sinistra come il Partito Democratico. Ma torniamo a noi. Ora, chiamateci sognatori, o solamente un po’ impazienti, ma a questo punto ci sorge una domanda. Se il 2 giugno festeggiamo la Festa della Repubblica, e noi siamo i primi a riconoscerne il valore, perché ancora oggi tutti i cittadini europei non festeggiano la festa dell’Europa? Cito: “Il giorno europeo o festa dell’Europa si celebra il 9 maggio di ogni anno. Questa data ricorda il giorno del 1950 in cui vi fu la presentazione da parte di Robert Schuman del piano di cooperazione economica, ideato da Jean Monnet (cosiddetta Dichiarazione Schuman), che segna l’inizio del processo d’integrazione europea con l’obiettivo di una futura unione federale”.
Immaginate cosa succederebbe: il 9 maggio di ogni anno, in tutte le città e i paeselli d’Europa, si festeggerebbe il giorno europeo. Sarebbe un giorno di vacanza e di festa per tutti. Noi italiani avremmo anche la fortuna di vedere sfrecciare le frecce tricolori, ribattezzate (perché no) per l’occasione Frecce Europee, volare con le loro strisce blu e oro sopra i cieli italiani, che in quel giorno ancora più degli altri, sarebbero a tutti gli effetti, cieli europei. L’Inno alla Gioia risuonerebbe in sottofondo, a testimoniare l’unità e il destino comune di tutti i cittadini europei.
Speriamo manchi poco. Sarebbe l’inizio di una nuova splendida storia di pace, armonia, condivisione e convivenza.