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Frontalieri ai tempi del Covid-19

di Dario Natale

Con l’arrivo del COVID-19 uno dei temi di cui si è ripreso a parlare in Svizzera è la frontiera. Quest’ultima, non è intesa come una semplice linea di confine, ma piuttosto come la barriera che protegge la Confederazione Elvetica dai possibili “untori”.

In queste ore, è con estrema tristezza che assistiamo alla tragedia che sta avendo luogo nella nostra penisola, falcidiata da un virus che non conosce limiti geografici. In un’Italia zona rossa – questa oramai la terminologia in voga tra gli esperti –, i focolai più complessi da gestire si sviluppano all’interno di una regione, quella lombarda, che vede un afflusso considerevole di lavoratori frontalieri verso il Ticino. Difatti, è proprio qui che si sono verificati i primi contagi e, di conseguenza, il dibattito sui frontalieri.

In realtà, non è una novità che se ne parli visto che questo tema è sempre stato al centro del dibattito in Svizzera, strumentalizzato da molti a fini elettorali. Proprio per questo, abbiamo davanti agli occhi ormai da anni i dati riportati nel grafico sui frontalieri del 2020, tralasciando le lievi oscillazioni del momento di riferimento. Per quanto riguarda il Ticino, notiamo che i lavoratori frontalieri ammontano a più di 67.800, per lo più provenienti dalla Lombardia, nel cantone di Ginevra a 85.100 e in quello di Basilea Città a 33.700.

Questi i dati dell’Ufficio Federale di Statistica, cifre di cui si è tornato a parlare in questo periodo in relazione alle restrizioni alla frontiera dovute al virus. Non siamo qui per discutere la liceità della decisione di chiudere o limitare l’accesso al cantone Ticino, pur ritenendo personalmente che una riflessione in tal senso sia importante. In questo momento, invece, l’elemento sul quale vorrei concentrare l’attenzione è : quanto sono stati importanti (vedi fondamentali) fino ad ora, e quanto lo saranno ancora, i frontalieri in questa battaglia contro il COVID-19?

Per trovare una risposta a questa domanda mi rifaccio ad un’altra fonte: SwissInfo.ch ci dice che nel 2007 l’ospedale universitario di Losanna (Chuv) dava impiego a 197 frontalieri. Dieci anni dopo ne contava 799, pari a un aumento del 400%. Sempre secondo SwissInfo, nello stesso periodo il numero totale di dipendenti è passato da 9.339 a 12.763. L’ospedale di Losanna è una vera e propria Torre di Babele: vi sono infatti 99 nazionalità diverse (44% di stranieri)[1].

A Ginevra, l’ospedale universitario (Hug) è più o meno nella stessa situazione: gli stranieri (51%) sono addirittura leggermente più numerosi degli svizzeri (5.874 contro 5.686). La percentuale varia però fortemente a seconda delle professioni: nelle cure infermieristiche i francesi rappresentano il 54%, mentre tra il personale amministrativo il 21% e tra i medici solo il 16%. Inoltre, sui 3.883 collaboratori di nazionalità francese che lavorano all’Hug, l’86% abita in Francia.

Questi dati sono lì, davanti ai nostri occhi, immobili a testimoniare la dipendenza della Svizzera dal lavoro transfrontaliero. Non dimentichiamoci, inoltre, che dietro questi “numeri” ci sono persone che attraversano tutti i giorni la frontiera per venirci a curare, rischiando le proprie vite in questo momento di crisi.

A questo proposito, si potrebbe discutere anche della questione del dumping salariale che interessa i lavoratori frontalieri della città di Ginevra, del Ticino e di altre zone in Svizzera. Purtroppo, però, non è limitando l’accesso o paventando la chiusura dei confini che si risolve il problema. Non sono queste le chiavi di lettura per analizzare un fenomeno sociale, politico ed economico così complesso.

Nonostante ciò, dopo aver visto le immagini strazianti di Bergamo, assistiamo alle continue provocazioni della Lega in Ticino, la quale porta comunque avanti il proprio cavallo di battaglia: il suo discorso, quello sì virulento e lesivo, sulla chiusura delle frontiere per evitare l’arrivo degli infetti. A questo punto, conoscendo le dinamiche politiche, è chiaro che si tratta di strumentalizzazione a suo vantaggio. Una cosa stupisce però: la Lega ticinese precisa che “i frontalieri che lavorano negli ospedali e nelle strutture sanitarie, quelli possono venire a lavorare in Ticino” [2]. Cos’è questa se non un’ammissione di bisogno? La domanda da porsi, però, è se sia giusto selezionare la manodopera a seconda dell’emergenza. Questo discorso, che nasce dall’esigenza di difendere i propri confini, non è più tollerabile. Non si sta parlando di merci da poter importare a proprio piacimento.

Inoltre, in un mondo globalizzato e interconnesso, discorsi sul proprio orticello come quello della Lega ticinese non dovrebbero avere alcun senso di esistere. In questi momenti di difficoltà bisognerebbe dialogare, ragionare su soluzioni concertate e non dividersi. La minaccia è così grande che progetti di Paesi isolati non hanno alcuna speranza di risultare efficaci. Per arginare un nemico invisibile, un virus senza passaporto o residenza, avremo bisogno di tutti: medici e scienziati così come insegnanti, cassieri, personale tecnico e tanti altri. Avremo bisogno di persone, non di dati o braccia, a prescindere dalla loro origine.

[1] https://www.swissinfo.ch/ita/francesi-e-italiani-negli-ospedali_-senza-frontalieri–molte-delle-nostre-cliniche-non-funzionerebbero-/44138786

[2] https://www.tio.ch/ticino/politica/1423732/lega-frontiere-frontalieri-berna-ticino